Una progettazione universale per città accessibili a tutti

I termini “barriere architettoniche” e “progettazione inclusiva” dovrebbero essere superati, adottando un cambio di prospettiva che ponga al centro le persone, piuttosto che limitarsi a seguire le norme. Si tratta di progettare per e con tutti.

Questo principio riassume lo sforzo dell’Ordine degli Architetti di Torino, che, come spiega la consigliera Erika Morbelli, “da tempo ha avviato i lavori di un focus group sulla qualità del progetto: architettura senza barriere. Come architetti, siamo chiamati a occuparci di questo tema, iniziando a progettare da una prospettiva diversa”. Il coordinatore del focus group è Mauro Meneghetti, che insieme al suo team di architetti ha cominciato a esplorare, attraverso il dialogo con le persone, le esigenze di tutti. Da questo confronto nasce un’architettura che va oltre il concetto di inclusione e di barriera architettonica, poiché riflette una progettazione che, già nella fase di ideazione, considera tutte le variabili esistenti, spesso molto diverse dalle figure standard utilizzate per concepire le normative. Questo tema è stato affrontato durante il convegno “Architectural Barriers and Inclusive Design” nell’ambito di Restructura, che ha visto la partecipazione di studentesse, architetti e designer, nonché rappresentanti di associazioni impegnate a dare voce alle persone con disabilità.

A cura di Carlotta Rocci.

Una riflessione per un cambio di prospettiva

Jessica Filippone, studentessa di architettura sorda, racconta: “La mia disabilità non si vede, devo dichiararla ogni volta. I problemi che incontro possono essere simili a quelli di una persona anziana: si verificano ovunque, come in un museo troppo buio per leggere le labbra, in un albergo che non offre sistemi di comunicazione alternativi a quelli sonori, su un autobus o a una biglietteria dove il plexiglass mi impedisce di vedere bene chi ho di fronte. In stazione, se gli annunci sono solo sonori e non visibili a video, le difficoltà aumentano. Le barriere sono anche comunicative”. L’elenco potrebbe essere molto più lungo.

“Se il mondo fosse progettato per tutti, sarebbe diverso”, afferma Mara Bragagnolo, interior designer specializzata in progettazione inclusiva con un approccio neurodivergente al design. “A volte le neurodivergenze sono difficili da gestire, ma non per la loro natura, quanto perché il mondo in cui viviamo non è pensato per quelle diversità”. Non sono necessarie rivoluzioni: bastano piccole modifiche per rendere uno spazio accessibile a tutti. La scelta dell’uso della luce, dei materiali e dei colori è fondamentale. Tuttavia, esiste una difficoltà: non c’è uno schema che funzioni in ogni situazione. “Per questo motivo, la progettazione neurodivergente deve essere fatta insieme alle persone neurodivergenti e a chi vive quegli spazi”. La questione è complessa: le disabilità sono molteplici e le esigenze diverse, a volte in conflitto tra loro, complicando il lavoro dei professionisti. “Ma questo – affermano gli architetti – può anche rappresentare uno stimolo per una progettazione innovativa”.

Barriere invisibili

Esistono barriere che non sono visibili o, meglio, che sono notate solo dalle persone che ne subiscono le conseguenze. “Può trattarsi di una pedana traballante, presente ma non funzionante, o di un percorso interrotto da un bidone della spazzatura. Chi non ha bisogno di quel percorso o può superare la pedana scavalcandola, non se ne accorge. La barriera, pur essendo presente, non è percepibile da chi non la vive direttamente”, spiega Mara La Verde, disability consultant. Esistono anche barriere sociali e culturali che si manifestano quando le persone non sanno come relazionarsi con chi ha una disabilità. “Quando entro in un negozio con il mio accompagnatore e chiedo un momento per visionare la merce, poiché sono parzialmente cieca, la persona che ho di fronte smette di parlare con me e inizia a rivolgersi al mio accompagnatore. Questo accade perché la disabilità è ancora un tabù, e si combatte solo con l’informazione”.

Il PEBA, uno strumento da diffondere

Il Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA) è uno degli strumenti con cui i comuni cercano soluzioni per garantire la massima fruibilità degli spazi pubblici. “Ancora pochi comuni si sono dotati di questo documento e c’è ancora molto lavoro da fare”, spiega Rosa Scilipoti, architetta membro del focus group dell’Ordine degli Architetti. “Non basta rimuovere un ostacolo o una barriera, bisogna considerare l’insieme e comprendere i reali spostamenti delle persone per organizzare meglio gli spazi, partendo dall’esperienza d’uso. L’obiettivo finale del PEBA è rendersi superfluo, e ciò accadrà quando sarà sostituito da una progettazione davvero universale”.

Una città per tutti

“Tra i comuni che non hanno ancora adottato un PEBA c’è anche Torino”, osserva l’architetto Cristian Tarasco, ribadendo un concetto chiave di questo nuovo approccio all’accessibilità, che va oltre il concetto di barriere architettoniche: “La vera barriera non è legata alle difficoltà nell’accesso a spazi o servizi, ma dipende dalla forma dell’ambiente. La vera normalità è quella che include persone di diversa altezza, peso, età, e con diverse capacità di movimento. Occorre progettare per e con le persone, tenendo conto delle loro diversità. Non basta rispettare le norme; è necessario ascoltare i cittadini e progettare in base alle loro vere esigenze”.

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